Devo citare il tormentone dell'estate 2001? Soffro lo stress, io soffro lo stress, sono stanco e fuori forma…
Perché, effettivamente, sì. Ci deve essere un errore, qualcosa non torna.
La mia idea è che i Velvet, con Boy Band, volessero raccontare questo: quando non sai più nemmeno tu perché fai quello che fai. Ti hanno infilato in ritmi insostenibili, improponibili, ma tu vai avanti. Perché l'importante è andare avanti.
Dove?
Non lo so. Tu zitto e nuota.
Ecco, improponibili è la parola chiave. Nel senso che non dovrebbero nemmeno essere proposti, certi ritmi. E invece non solo vengono proposti, ma imposti.
Un mio ex cliente una volta mi disse: "Non le ho chiesto io tutte quelle ore di lavoro." Beh, flash news per tutti i datori di lavoro in ascolto: il carico non viene scelto, ma imposto tacitamente attraverso scadenze serrate e modalità operative continue, guarda un po'.
Quella canzone – che la Wikipedìa definisce "uno sberleffo", una parodia delle boy band degli anni Novanta – potrebbe avere in realtà anche un altro significato: accetti il successo? Allora devi accettarne anche gli effetti collaterali. Responsabilità , pressioni, performance instancabili e compagnia bella.
Ma quegli effetti sono presenti nel quotidiano di ognuno di noi. Anche quando il nostro "successo" è solo riuscire a fare il lavoro che amiamo.
Che va a finire ti faranno odiare, però, così.
E magari, alla fine, ti sentirai pure dire che non sei stata "abbastanza", che il tuo lavoro non ha soddisfatto le aspettative, da parte di qualcuno che non ha la minima idea di quello che ti ha chiesto.
E tu paghi la sua ignoranza con la tua salute.
Certo, puoi sempre rifiutarti.
Ma anche questo ha un costo: finire fuori dal giro.
E dovrei abbronzarmi un po' | Scatenarmi nei dancefloor | Eliminare le occhiaie | Manco di concentrazione | Non ho volontà | …
Ho sempre pensato che chi ama quello che fa non se ne accorge.
Del fiatone, dico.
E che chi, invece, fa qualcosa che non ama… si stanca.
Mi sbagliavo.
Da dove nasce l'ossessione per la produttivitÃ
Da dove non saprei. Rivoluzione Industriale? Catena di montaggio fordista? Capitalismo digitale?
Quello che so è che la produttività è diventata una misura di valore personale, anziché professionale. Essere efficienti, performanti, instancabili, è una forma di successo.
Eppure le persone si ritrovano svuotate, ansiose, incapaci di sostenere i famosi ritmi.
Nel doppiaggio, per esempio, le cose sono diventate intollerabili, eccessive. Altamente denigratorie, in certi casi, ed esclusive.
Non c'è tempo! Non c'è TEMPO! NON C'È TEMPO!
Insomma, che piaccia o no il proprio lavoro, bisogna ricordarsi che come persone umane abbiamo dei limiti. Che stiamo invecchiando male e presto.
E qui entra in ballo l'Intelligenza artificiale, che ci dice: "Non preoccupatevi, ci sono io! Starete incollati lì a decuplicare le sinapsi del vostro cervello grazie a me, senza nemmeno più bisogno di riprendere fiato, o sarete sostituiti."
Che, tradotto, significa restare connessi 24/7 e costantemente esposti a stimoli che ci spingono, non a rallentare perché "c'è chi ci pensa", ma a fare di più, in meno tempo.
Così vinciamo la gara.
Ma con chi? Dove?
Non lo so, tu zitto e nuota!
Parafrasando Yuval Noah Harari in Homo Deus (Bompiani, 2018), il nuovo obiettivo della civiltà non è più la sopravvivenza, ma l'ottimizzazione infinita delle funzioni umane.
Motivazione tossica e cultura della performance
A questa spinta esterna si è aggiunta una dinamica interna: la cultura della motivazione continua.
Podcast, reel, libri di self-help, corsi di "life design": tutto ruota attorno all'idea che, se vuoi, puoi. Cioè, che se non riesci, è perché non ti impegni abbastanza.
Non sarà che la verità più profonda non è legata ai datori di lavoro ignoranti – e schiavizzati a loro volta da soldi e Dio Denaro – ma, come ha scritto Jennifer Moss per Harvard Business Review nel 2024, al fatto che lavoriamo più ore non perché ci viene chiesto, ma perché crediamo che farlo ci renda migliori? (Consiglio l'articolo, illuminante: Let's End Toxic Productivity)
Questa forma di motivazione tossica è particolarmente pericolosa perché si maschera da auto-aiuto, mentre in realtà nasconde una profonda alienazione.
Le conseguenze psico-sociali: burnout e...
Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità , il burnout è stato ufficialmente riconosciuto come "fenomeno occupazionale" nel 2019.
E i numeri peggiorano: un report di Forbes pubblicato nel 2025 rivela che il 66% dei lavoratori globali dichiara sintomi di burnout. (Job Burnout At 66% In 2025, New Study Shows)
Il problema non è solo lavorare troppo, ma non avere più uno spazio mentale libero, una pausa, un tempo "inutile" in cui esistere senza dover produrre.
Io mi rendo conto che non riesco nemmeno a finire un film sul divano senza prendere il cellulare in mano e compilare la scaletta delle cose da fare il giorno dopo, e, magari, perché no, iniziare a impostarne qualcuna… e allora mi alzo, prendo il pc, mi risistemo sul divano con quel film sotto che a un certo punto metterò muto perché nemmeno mi accorgo che ho ripreso a lavorare.
Lavorare con passione ma odiare ciò che si ama
Quando dicevo che mi sbagliavo, intendevo che un'altra trappola è quella della passione. "Fai ciò che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita" è uno degli slogan più insidiosi del nostro tempo. In realtà , chi ama ciò che fa è ancora più vulnerabile: tende a non porsi limiti, a non fermarsi mai, a sacrificare tutto per il proprio lavoro.
La giornalista Sarah Jaffe, nel suo libro Work Won't Love You Back (Bold Type Books, 2021), lo scrive chiaramente: "Più ami il tuo lavoro, più sei disposto a tollerare sfruttamento, precarietà , stress."
E spesso l'industria stessa rovina ciò che amiamo: nel doppiaggio, così come nell'informatica, o nella scrittura – che sono le mie, ma il discorso vale per tutte le attività – la velocità e la quantità hanno sostituito la qualità e il senso.
L'intelligenza artificiale: opportunità o acceleratore di crisi?
L'intelligenza artificiale è il simbolo massimo di questa ambiguità .
Potrebbe alleggerirci, renderci più liberi da compiti meccanici.
Invece – va beh che è nuova, ma – la usiamo male, cioè per fare di più, più in fretta, con meno persone.
Secondo il World Economic Forum, entro il 2027 l'automazione e l'IA porteranno alla trasformazione del 44% delle competenze professionali. (https://www.weforum.org/reports/the-future-of-jobs-report-2023)
Chi riesce a stare al passo? Non c'è tempo per fermarsi, figuriamoci per formarsi.
Quelli che sono stati i miei grandi insegnanti di doppiaggio risponderebbero che l'unico modo che abbiamo per non farci sostituire dall'IA è l'eccellenza.
Io penso che voler resistere al cambiamento sia comprensibile, ma rischia di isolare. Chi rifiuta l'innovazione corre un pericolo inaccettabile nell'era dell'idolatria della produttività : diventare marginali nel sistema globale.
Chi nel 1998 rifiutava Internet, oggi non esiste. Chi nel 2008 sottovalutava l'impatto degli smartphone, ha perso il treno della fruizione mobile.
Io nel 2010 ho perso il lavoro perché sviluppavo in Flash – per quello ero stata assunta – e a un certo punto qualcuno ha deciso che quella tecnologia non sarebbe stata compatibile con gli smartphone.
Voilà , e a un certo punto ero a casa.
L'Intelligenza Artificiale è il prossimo passaggio. E chi opera in tutti i settori ha davanti a sé due strade: o adottare (e adattarsi) valutando strumenti, integrandoli con consapevolezza e formando nuovi ruoli; o restare spettatori passivi e lasciare che altri (grandi tech, piattaforme estere) impongano regole e visioni.
Ed ecco che riparte la gara. Non se ne esce.
Cosa dovremmo fare, quindi? Cosa ho fatto io (che facciamo prima)?
Formarsi, sperimentare, allearsi con chi innova, rivendicare la propria visione: l'IA non può sostituire il pensiero critico. È solo uno strumento: l'arte resta umana.
Tuttavia, l'IA non è il futuro, è il presente. E l'innovazione si può non subire. Basta guidarla.
Verso una produttività sostenibile
Perciò, tornando al punto, mi sento di riportare uno dei più autorevoli approcci in risposta alla Increase Productivity 🤯, che è quello di Cal Newport, autore di Slow Productivity (Portfolio, 2024):
- lavorare su meno progetti contemporaneamente;
- lavorare a un ritmo naturale, senza sovraccarico;
- misurare il valore non in output, ma in qualità e impatto. (https://calnewport.com/my-new-book-slow-productivity)
Anche la ricercatrice Kate Northrup sottolinea il valore del "fare meno" nel suo libro Do Less (Hay House, 2019): non come rinuncia, ma come scelta consapevole.
Perché la verità è sempre la stessa: non sono le cose in sé, ma l'uso che se ne fa. Come si diceva di Internet all'inizio...
Forse il punto non è solo quanto produciamo.
Ma perché.
E se ne vale la pena.
La vera rivoluzione non sarà battere gli algoritmi, ma ritrovare il senso di ciò che facciamo.