35) Dare

– Che cos'hai in mano? È uno scherzo, spero. Vieni promosso e ti licenzi?
– Vedi… questa carriera non fa per me.
– E che cosa farai?
– James, grazie di tutto.
(Ryan Coogler, Creed - Nato per combattere, film 2015)

- 16.

Ricordo di aver pensato un giorno E se mi capitasse di dover doppiare una roba così?!

Ricordo di averlo anche postato su Facebook. Curioso come poi il destino mi abbia portato a fare un provino proprio con lei, la stratosferica Silvia Pepitoni.

E passarlo pure!
Cioè, la vita ha più fantasia di noi.

Mi comunicano data e ora di partenza delle lezioni, calendario e tutto il resto. Inizia ufficialmente il mio tirocinio di doppiaggio in Fono Roma, con andirivieni settimanale in treno, e, incredibile, diritto in quanto studente, di fare una cosa che ormai non fanno fare più a nessuno: assistere ai turni. Il vero inaccessibile tirocinio.

Non so come spiegare.
Da che mi si proiettavano davanti appostamenti e accanimenti vari a Roma, mi aprono la porta principale degli studi di doppiaggio più importanti della storia e mi fanno entrare da lì.

Ripenso a un capitolo che intitolavo Verde Speranza, e sorrido. Non mi sento mai sola. Mi addormento così, trasognante, inebetita, turbata, riconoscente, grata.

La cosa strana di questo periodo è quando mi chiedono "che lavoro fai", e io d'istinto rispondo "sono una sviluppatric... una ex svilup... ero un'informatico."
Che è come dire "che ore sono?", "Erano le cinque, prima." Non è che stai proprio rispondendo alla domanda.
"Ho cambiato vita, da un po'..." dico, ma non aggiungo mai Sono una scrittrice! Sono un'attrice doppiatrice! Perché non è vero. Ancora.
"Ho un blog" rispondo, "e lavoro con la voce adesso..."

**grilli d'estate di notte**

"Cioè, faccio audioletture, spot, sai, doppiaggio..."
"Ah, fai tipo le voci?? Forte! E in quale film?"

Breve storia triste.

Così, alla prima domanda ho iniziato a rispondere "Anno sabbatico -.-”.

Ma questa cosa non è possibile sempre. Per esempio, in Comune, al rinnovo della carta di identità, qualche giorno fa, alla voce professione non sapevo cosa scrivere.
In transizione, da stabilirsi, ignota.
Ma proprio ora dovevano scadere i dieci anni? Cioè non mi si può immortalare per i prossimi dieci come sono ora. Sono ancora un bozzolo. Che lavoro faccio? Anno sabbatico!

Alla fine, ho dovuto mettere l'ultima cosa certa. Ok, d'accordo, sono una sviluppatrice. Per altri diec'anni. Pfffh. Foto? Eccole. Timbro. Firma. Se mi fermano da qualche parte, starò mentendo per i prossimi diec’anni. Pfffh.

Sento MJ al telefono. Che bella sorpresa! Decidiamo di rivederci noi gruppo affiatato di cinque, in pausa pranzo. Quanto bene voglio a tutti. Ci ritroviamo alla solita mensa vicina all'azienda. Sono proprio loro. Sono belli. Mi chiedono come va, gli racconto tutto! Li trovo stanchi, mi rivedo nella loro stanchezza. Li guardo, li ascolto, mi godo il momento come se poi non ce ne fossero più. Ci scambiamo risate, abbracci, racconti, aggiornamenti. MJ se ne andrà anche lei, e dei ragazzi ognuno ha le sue novità. Sono contenta per chiunque faccia quello che desideri.
Io e MJ sapevamo che sarebbe stata una questione di tempo, e guardandola negli occhi la riconosco. Ispirato a tutti noi scriverò un racconto d'avventura, prima o poi, un giorno, perché certi legami sono così preziosi che è una fortuna averli instaurati, anche se poi si è destinati a lasciarsi.

Finisce il pranzo, si torna in ufficio. Ringrazio tutti i santi che io no. Ci salutiamo così, promettendoci di risentirci e rivederci ancora. E poi, si sa, la vita va avanti.

Sono grata di aver condiviso una parte del mio cammino con loro.

MJ, da brava praticante dell'Aikido, prima di salire in macchina con gli altri mi strizza l'occhio e mi dice: sempre il ki avanti, mi raccomando! Io le rispondo sorridendo: con l'aiuto di Dio.

Una volta, prima di questa azienda qui e prima del master, tornai da uno dei miei frati per ringraziarlo.
Mi chiese come andasse, gli risposi che, mentre per i miei cari srotolavo papiri, per me non sapevo che cosa chiedere. Nelle mie preghiere, dico. Che andava tutto bene, a parte "certe tensioni da vita da ufficio", che il futuro era opaco ma non mi importava, che ero pronta ad accettare qualunque volontà superiore, che era quella la parte che mi aveva fatto star bene. Sia fatta la Tua volontà. Perché, in ogni caso, sentivo la vita scorrermi dentro.
Lui pronunciò una frase che mi mise in silenzio. Poteva scegliere tra perché hai tutto quello che desideri, o, perché non hai idea di quello che vuoi, o, non sai che cosa chiedere perché hai fiducia nella volontà di Dio, che ne so. Invece, "Beh..." mi rispose "forse perché, più che di chiedere, è arrivato il momento di dare."

Percepì il mio smarrimento.
Pensai subito al volontariato, una cosa di fatto più che altro lontana da me, anche se incerta che stesse parlando di quello.

Lui mi sorrise e basta.

Ci salutammo poco dopo, così, in levare.

Ora, come si fa a spiegare dove può arrivare il teatro? C'è ancora chi considera gli artisti dei poveri sognatori squattrinati. Gente da compatire. Già, beh, un po’ lo siamo. Mi ci metto in mezzo perché, Padre, adesso ho capito quello che stava cercando di dirmi quella volta. Ho capito che cosa mancava, ho capito che mancava.

La com/passione, il patire con, il pàti latino o il greco pathos – come la metti, metti l'emozionarsi insieme – la accetto, la voglio, continuate pure, avete centrato il punto! Siamo gente da compatire, è esatto.

Guardate, non sto parlando tanto di quelle realtà importanti legate alla beneficenza, per le quali mi rendo conto di non essere abbastanza forte. Strutture come La Casa dei Risvegli, per esempio, a Bologna, l’ospedale di recupero per degenze e risvegli dal coma, con cui ho scoperto con le lacrime agli occhi collaborare la nostra scuola di teatro. Io la beneficenza l'ho sempre fatta da lontano. Certe scelte non potrebbero diventare la mia quotidianità per mancanza di stomaco.
Ma oggi mi rendo conto che è vero che la felicità ha molto poco a che vedere con l'avere, e ha molto più a che fare col dare.

Si può dare in tanti modi.
Le mamme possono capirmi.

Ma, se è vero che la felicità è dare, mi chiedo pensando sulla strada di ritorno, che differenza c'è tra una borsa agghindata, un paio di scarpe di cuoio, una bella cintura e un'emozione? Che differenza c'è tra quello che facevo prima e quello che faccio adesso? La moda fa felici in molti, dopotutto.

Mi rispondo che, a parte che bisognerebbe mettersi qui a definire la felicità a questo punto e allora sarebbe dovuto un capitolo a parte o forse non basterebbe un libro, ma, quando dài un'emozione a qualcuno, tranne forse nel caso della Piccola Fiammiferaia, non gli migliori la qualità dell'armadio. Le emozioni non si autoprocurano come le borsette. Per emozionarsi servono gli altri. E un'emozione ti migliora la qualità della vita.

La verità è che in quell'azienda mi pagavano bene. Ma non mi appagavano bene. La verità, la differenza, si riduce al come mi sentivo io prima, e a come mi sento io adesso. Utile. Esaudita, quieta, in pace, nonostante la paura di non farcela.
(La paura è mia amica, ricordate?)

E credo abbia ragione Joey quando, nella IV puntata della V serie di Friends, tenta di spiegare a Phoebe che non esistono vere azioni altruistiche, perché, in ogni caso, ci sarà sempre un ritorno personale.
Credo che tutto giri intorno al nostro bisogno di sentirci validi, importanti, preziosi. Per qualcuno.

Io sono una grande egoista, in questo senso, direbbe Joey. Ho sempre amato far contenti gli altri, perché questa cosa fa star bene me.

Magari un giorno mi ritroverò in qualche parte del mondo a fare del bene davvero, ma oggi sono felice di trovarmi in questa parte di mondo qui a regalare emozioni. Perché è questo che fa un attore, si dà completamente. Anche se lo fa per sé.

E poi c'è dell'altro.

Ripenso a tutte le cose che ho fatto, e che sarebbe un gran peccato perdere, lasciare andare. Perciò, se per essere felice oggi ho deciso di mettere a disposizione la mia arte da un lato, in un pomeriggio qualunque di un ritorno in macchina dopo un pranzo fra amici qualunque, mi folgora un'idea. E mi decido: metterò a disposizione, dall'altro, le mie conoscenze.
Voglio divulgarle. Voglio fare formazione, o consulenza, o quel che è.

Dare si può leggere in due modi, anche in inglese, come dare /de(ə)r/, osare. E io penso che il segreto della felicità sia proprio racchiuso, in ogni sua forma, in queste quattro lettere, in queste due parole, dare. E osare.

Nell'epoca del telelavoro e del nomadismo digitale, l'epoca dello smart working o nomad working o comunque lo si voglia definire, in cui è sufficiente un computer portatile ed una connessione a internet per lavorare, quale migliore soluzione dell'essere slegata da sedi e orari potrebbe risolvermi tutti i problemi, compresi quelli del trasferimento a Roma (o in qualsiasi altra città)?

Sono sempre un informatico, dopotutto.
Lo dice anche la mia carta di identità nuova.

Persi 15 kg, terza e ultima medaglia d'oro.

Traccia il mio picco, congratulazioni! 10.2 kg.

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2 risposte a “35) Dare”

  1. Mannaggia mi hai quasi fatta commuovere alla fine di questo capitolo! Cosa piuttosto scomoda quando hai la maschera antigas in faccia 😉
    Continua a creare anche tu <3

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