13) Il Principe delle Maree (1ma parte)

"Notti in cui tutte le lettere dell'alfabeto tornano nelle loro tane."
(Fabrizio Caramagna)

- 170.

Luglio.
Progetto consegnato.
Voglia di silenzio.

Il silenzio è una cosa che mi viene difficile.
Voglio dire, amo il silenzio, mi ci chiudo mentre sono impegnata a lavorare ed è l'unico modo che conosco per concentrarmi, per rilassarmi, per sentire i miei pensieri. Sono misofonica, addirittura. Ma il silenzio mi viene difficile quando qualcuno mi parla, ho come l'ansia di riempire gli spazi. A volte mi rendo conto che sono partita a raffica e vorrei cliccare un tasto back, fare Ctrl+Z, e stare zitta. Shhh. Ci sono persone che riescono a fatica ad abbattere l'istinto naturale di riservatezza e fanno un tentativo di lancio e tu devi solo accoglierlo. Tacendo.

Ad ascoltare, per esempio. Che quando ascolti senza farti prendere dall'ansia di rispondere ti si sgombra la mente e vedi cose. Capisci più cose, dell'altro dico, di quello che ti deve dire, che sta cercando di significarti. E, se lo fai, succede che all'improvviso la gente inizia a parlare di più, ti guarda imbarazzata perché stavolta è lei che ha bisogno di riempire gli spazi e non riesce a smettere perché tu annuisci e basta, e così vuota il sacco, letteralmente. Ha bisogno di essere ascoltata, vedi che prende la ruzzola della parola. Perché, quando vuole che tu risponda, te lo chiede, Tu che pensi?
Non c'è bisogno che parli fino a che lei non te lo chiede.
E scopri cose nuove, inizi a vedere cose nuove, come muove il corpo, cosa c'è dietro quello che sta dicendo. Diventi un osservatore del linguaggio, un contemplatore estraniato delle dinamiche umane del discorso, un esploratore delle emozioni che vanno al di là dell'uso della parola.

E poi mi viene in mente la filosofia buddhista e mi rimprovero e mi viene voglia di essere migliore:

"Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire."

Ora, siccome questa cosa mi appartiene solo quando mi concentro, mi capita che la gente al contrario mi guardi e se ne esca con Ma mi stai ascoltando? Mi chieda se sono lì oppure no, senza sapere che sono più lì ora di tutte le volte che sono stata lì, a dire la mia. E a quel punto è richiesta interazione sociale senza straniamenti, e io penso a come sarebbe chiudersi nel silenzio senza avvertire nessuno e cercare di resistere per, che so, una giornata intera.
Tempo fa volevo scriverci su un racconto, ma me lo sono immaginato con dentro atti di spazientimento e brutale aggressione, o ansia soccorso per sospetto malore improvviso.

Insomma, tacere non è per tutti (tolti sostenitori allenati di filosofie orientali varie). Non ci siamo abituati. Quando ce ne stiamo lì senza parlare e, guarda caso, ci affiorano pensieri che consideriamo degni di nota, quattro secondi dopo li stiamo già condividendo su Facebook. Non siamo proprio capaci di rimanere concentrati e goderci il momento. Dobbiamo interromperci per condividere.
Eppure il silenzio ha il suo valore, senza dire niente di nuovo.
Non è sempre imbarazzo. È soprattutto ascolto interiore. È pace. Riverenza. È qualcosa di armonico che si dichiara compiuto. Cioè, non c'è altro da aggiungere, è tutto lì. Non è spazio vuoto, è spazio pieno.
E mi son detta Non fiatare, smettila di far parte del caos, finiscila. Ascolta. Calma. Zitta. Ti sentono uguale.

Io del caos non ne posso più. Ce l'ho anche dentro ormai, forse è per questo che irrompo a mia volta per farmi sentire.

Avete mai provato a poggiarvi i palmi delle mani sulle orecchie? Senza troppa pressione, solo come strato di protezione. Sembra di stare sott'acqua, si sente il fruscio di quelle grosse conchiglie di mare, di mondi altri, ovattati, innocui.
A volte mi ci riposo in quella posizione. Finché non mi sento scuotere la spalla da qualcuno Oh, tutto ok?
E il caos ricomincia.

Guardo i miei nipoti adolescenti e penso che c’è un grande vuoto creato dalla superficialità del moderno. E noi ci ritroviamo indifesi di fronte a ciò che può aggredirci, da fuori o da dentro. Non siamo capaci, non siamo addestrati a fermarci, ad ascoltare, non c'è il tempo, non c'è la maniera. Un'occhiata veloce ai social, che si sono sostituiti ad ogni altra istanza di trasmissione e cultura, e siamo belli saturi di informazioni, eccitati da ogni genere di impatto, e, allo stesso tempo, indifferenti a quasi tutto.
L'abbondanza favorisce una esasperata molteplicità di scelte, e in mezzo all'ipersollecitazione è più facile coltivare il gusto del nuovo e del diverso, più che del buono e del profondo, del vero.
In mezzo a tutto questo caos, resta poco di stabile e consistente sul quale costruirsi un'esistenza. E, per quanto io abbia un grande problema di incompatibilità con l'adolescenza, riconosco che diventa normale per un ragazzo cercare esperienze che riempiano il vuoto che ha dentro o, almeno, che lo rendano sopportabile.
Il rumore esterno che inquina lo spazio urbano generando stress, tensione e nervosismo. Il rumore interno che crea confusione, disordine, agitazione, perdita di armonia e di equilibrio. Le persone che ormai non conoscono più né quiete né tranquillità. La rabbia che c'è in giro, l’insoddisfazione. L'ansia, le premure, l'irritazione che si impadroniscono delle nostre vite. L'uomo di oggi che ha imparato tante cose ed è superinformato su quanto avviene, ma non conosce la strada per gestire e amare sé stesso. Il chiasso che è parte integrante della vita moderna, sempre più lontana dall'ambiente sereno della natura. Se mettiamo tutto questo insieme, è chiaro che alla fine si fa fatica a sopportare il silenzio, la riflessione, la solitudine. Ciò che si cerca è qualcosa che ci impedisca di sentire il vuoto.

Senza andare tanto lontano, io stessa passo la maggior parte del mio tempo a lavorare con la musica nelle orecchie, perché il silenzio non si può avere sempre. E guai a chi mi tocca la musica, voglio dire, ma pensandoci bene si ascolta musica sul lavoro, in macchina, in autobus, in treno, mentre si legge o si fa sport, si vive con la musica continuamente. Mio nipote ascolta musica ritmica tutto il tempo. È come se sentissimo il bisogno di rimanere fuori da noi stessi, di essere trasportati, sentirci immersi in un ambiente stimolante e inebriante, con la coscienza piacevolmente anestetizzata. (Poi ognuno l’anestetizza come crede.) Preferiamo questo, preferiamo qualcosa che "ci faccia compagnia", anziché esporci al pericolo di vivere nella verità e nella pienezza di un momento silenzioso.

O forse è l’esatto contrario: ci si isola dall’asfissia del rumore per avere un po’ di tregua e costruirsi il proprio rassicurante intimo silenzioso spazio personale, veicolato dalla musica. Come mettere un bel “non disturbare” fuori dalla porta e chiudersi in mente. Uno spazio che quindi alla fine silenzioso non è. Mentre lei ci trasporta verso luoghi lontani, privati, un po' più nostri.

E allora il concetto non cambia, abbiamo un problema col qui ed ora perché la maggior parte del tempo noi non siamo dove vorremmo essere.

La questione è sempre quella, troppo doloroso ascoltare il dentro. E uno dei modi migliori che abbiamo per farci andar bene le cose è essere supportati dalla colonna sonora giusta.

Dopotutto, che altro valore ha la musica se non quello di creare il mondo come lo vogliamo? Questo è compito dell'arte, tutta.

E uomini e donne solitari che si cercano reciprocamente per fuggire dalla propria solitudine e dal proprio vuoto, che si avvicinano senza cercare di incontrarsi davvero.
Molta della gente che sto guardando in questo momento non conosce e non conoscerà mai, probabilmente, l'esperienza di amare e di essere amati, veramente.

Purtroppo io non posso farci niente, oggi. (Mi sto organizzando.) E, a meno che non mi trasferisca su un'isola deserta, non è possibile placare il tanfo sonoro che mi sfinisce ogni giorno a lavoro, e nel tragitto per venire qui, e nelle pause e in tutto quello che non è momento di raccoglimento personale e quant'altro.

Eppure, ho pensato, forse è come per chi non ci vede, che sviluppa un udito sovrumano: se fai in modo di azzerare l'audio, nella vita, ti si quadruplica la vista.

E ho deragliato sul pensiero che un attore deve essere innanzi tutto un buon osservatore, altrimenti non può saper rifare.
Ho pensato anche che, ora che abbiamo consegnato il progettone da un milione di dollari, ho più tempo da spendere nelle pause.
Ho pensato che la prima regola d'oro di uno scrittore è mostrare, non raccontare. E ho pensato che in effetti è su questo che si basa il cinema, perché non ha altro modo di dire le cose.
E che un doppiatore è obbligato a tenere conto di tutto questo, se vuole fare un buon lavoro.
Così, ho pensato a un esercizio.
Non so ancora dove mi porterà, ma so che qualcosa ne verrà fuori. E in qualche modo devo coprire gli spazi vuoti della giornata lavorativa ora che i giochi son fatti ed è iniziata l'estate. Sediovuole.

Prendo un film.
E lo riscrivo.
Ecco l'esercizio, per la miseria, prendo un film e lo riscrivo, come se fosse un romanzo.
Lo riscrivo guardandolo senza audio.
Aggiungo l'audio solo per riportare i parlati.
E scelgo uno dei migliori film mai scritti (uno dei pochi che mi è piaciuto più del libro). Scelgo Il Principe delle Maree, diretto da Barbra Streisand, tratto dal romanzo di Pat Conroy. E lo riscrivo. Per quel che posso, per il tempo che ho.

Ho voglia di una fuga in Canada, o nel Wyoming. Ho voglia di portarci i miei nipoti. Ho voglia di passare ore in contemplazione e basta. In mezzo a tutto questo rumore, per la miseria, c’è bisogno di silenzio.

"[...] Sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete, io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno."
(Giacomo Leopardi, da L'infinito)

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2 risposte a “13) Il Principe delle Maree (1ma parte)”

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