21) Travel writers e Shakespeare

"Happiness is a way of travel. Not a destination."
(Roy Goodman)

- 114.

Tante cose in ballo.

Pensavo ai viaggi. A chi prende su e parte. E si fa il giro del mondo, o dell'America, dell'Europa, o va in Africa, e poi magari ci resta.

A trent'anni mi sono fatta gli Stati Uniti on the road da costa a costa.
Prima di allora ho conosciuto gli USA in qua e là, è una di quelle passioni l'America che non so spiegare. Ci torno sempre, in un modo o nell'altro.
Sono stata in Sudafrica, Swaziland e Mozambico, non a fare la turista, niente alberghi o villaggi, per capirci, ma presso amici a vivere con loro e come loro. 
Sono stata in Inghilterra, ma a parte quella non ho mai visto l'Europa. E nemmeno granché dell'Italia, se devo essere sincera. Anche se non bisogna esserci stati per forza per affermare che il nostro paese è proprio bello in ogni suo angolo naturale, storico e architettonico.

Entro una certa età, ho passato tutte le estati in Sicilia, dai parenti di là.
Ho vissuto a Firenze e a Milano per lavoro, nonostante Bologna sia casa da quando sono nata. Ho studiato a Ferrara (università) e alla Holden di Torino. Tolte gite scolastiche in Toscana, Svizzera e laghi vari, ho visitato Roma e vissuto più volte qualche zona del Trentino e del Veneto, tra cui Asiago, del cui formaggio sono pazza. Ho passato un'estate in Sardegna e una a Capo Rizzuto, in Calabria. Ho fatto il bagno nel Mar Ligure, sono stata nel Salento e a San Giovanni Rotondo, in Puglia, a un matrimonio in Abruzzo e nel Cilento, sulla costiera amalfitana...
La verità è che non ho visto niente, non so niente, tranne qualche nozione così, frammentaria, interrotta, inghiottita senza masticare granché. Voglio dire, sono stata dove sono stata perché dovevo andarci a fare qualcosa, non per godermi il posto.

A parte l'America, naturalmente.

Rimedierò prima o poi.
Non so perché l'Europa non ha lo stesso richiamo dell'Oltreoceano, per me. Un richiamo insistente, costante, nonostante l'amore per casa mia.

Ad ogni modo, è tanto tempo che non prendo su e parto per uno dei miei viaggi seri. E Bill Bryson, soprattutto, va a finire che è l'autore in cui mi rifugio più spesso. Specialmente in questo periodo. Leggere i suoi libri è come girarsi il mondo insieme. E io con lui ho visitato il Profondo Sud degli Stati Uniti (che sarà il mio prossimo viaggio), ma anche la parte opposta, il nord ovest, e poi l'Europa in qua e là, un'Inghilterra sconosciuta, l'Africa, l'Australia.
Nell'era del mollo tutto cambio vita (l'era in cui i bambini vogliono fare gli youtuber da grandi), la gente crea un canale, si riprende mentre gira il mondo a piedi tipo video-diario di bordo, e poi ci scrive su un libro, e lo pubblica in autonomia per i follower. E per chiunque altro. E vive di quello che ama, ed è cittadino del mondo. E la gente lo segue su tutti i social e tutti vorrebbero farlo anche loro ma non possono e quindi ti stimo e ti clicco. E compro il tuo libro. E sogno un po' di libertà anch'io.
Si chiamano travel video blogger. Mattia Miraglio, Carlo Taglia, Nicolò Balini, il già pluricitato Francesco Grandis, sono solo alcuni fra gli esempi più significativi che non trovate nelle classifiche impacchettate dai periodici di costume.

Tante cose in ballo per me, qui, ora.

Ecco, sono stanca. Come dopo un ultimo esame, felice e in attesa di quel che verrà dopo, ma di fatto esausta. Con la voglia di partire e cambiare aria, vedere, scoprire, non pensare. Sto per lasciare il mio lavoro, salutare tutti e cambiare vita. Ogni tanto realizzo che lo sto facendo veramente. E la parte scalza di me è già in giro da qualche parte, con i soldi che non ha. Ma ogni giorno è una novità, per me adesso, in questa parte di mondo. E perciò il mio viaggio, al momento, è tutto interiore. Come in quella canzone di Elisa,

"hai girato il mondo dentro a un cuore, intero".

Non posso muovermi, adesso. Tranne progettare di andare a vivere a Roma, che sarebbe anche l'unico modo di portare avanti il mestiere della doppiatrice. Pensiero a cui mi dedicherò più avanti, altrimenti finisco per esplodere, oggi.

"Your big opportunity may be right where you are now."
(Napoleon Hill)

Poi a un certo punto, l'altro giorno, sorpresa. Bill Bryson non ha scritto solo di viaggi, ma, a parte il suo celebre Breve storia di (quasi) tutto e lasciarvi il piacere di sbirciare la sua bibliografia, ha scritto un libro che si chiama Il mondo è un teatro. Titolo originale: Shakespeare.
E così io mi imbatto in questo libro, che parla della vita e dell'epoca del Poeta, come in un incontro ravvicinato con, che so, il mio attore e il mio cantante preferito insieme! Che si conoscono! Due punti disgiunti che partono entrambi da me, che adesso si uniscono fra di loro e così io posso compiere un unico percorso circolare per incontrarli entrambi. Una specie di Carrambata che unisce due soggetti a me cari che di regola sono estranei l'uno all'altro e che all'improvviso invece sono amici, una novità della portata del tuo fidanzato e della tua compagnia che si fa tutti una gita insieme. Un istante simmetrico di felicità.

E, insomma, scopro cose come che la scuola dello Shakespeare bambino era veramente terrificante:

"I ragazzi frequentavano di norma l'istituto per sette, otto anni, cominciando all'età di sette anni. La giornata scolastica era lunga e si caratterizzava per un'estrema devozione alla noia. Gli alunni restavano seduti ai banchi di duro legno dalle sei del mattino alle cinque, sei di sera, con soltanto due brevi pause, per sei giorni alla settimana. (...) Per gran parte dell'anno facevano probabilmente fatica a scorgere la luce del giorno. È facile comprendere la battuta di Come vi piace sul bambino 'che svogliato si trascina come una lumaca verso la scuola'. La disciplina doveva essere severa. Parte integrante della preparazione di un insegnante (...) era l'uso del bastone. (...) Gli alunni della Westminster School di Londra erano costretti a dormire in un granaio privo di finestre, senza fonti di calore, sopportando bagni ghiacciati, cibo scarso e frequenti frustate. (...) Anche la loro giornata scolastica cominciava all'alba, ma comprendeva un'ora di lezione serale e studi che spesso tenevano i ragazzi svegli fino alle ore piccole. (Bryson, pag. 52-53)"

E, all'improvviso, la metafora di Romeo

"L'amore va all'amore con la gioia
Dello scolaro che lascia i suoi libri;
Se ne allontana con quell'aria triste
Di chi si avvia alla scuola."

si quadruplica di intensità.
Come anche la "dama bruna" dei Sonetti, che doveva essere una creatura estremamente esotica, dato che il pallore ("l'incarnato pallido") era un marchio di suprema attrattiva tipico delle ricche signore, compresa la regina, che arrivavano a schiarirsi la pelle con sostanze tossiche (cfr. pag. 72-73).
E questo mi fa pensare ai dettagli che fanno la differenza sulle opere e che bisognerebbe conoscerli tutti, o avere (avuto) degli insegnanti particolari, eccezionali.

E poi che la moglie si chiamava come Anne Hathaway, l'attrice, no? O chissà se è vero il contrario. E poi che tutti i ruoli femminili erano recitati da maschi e che a un attore protagonista si poteva chiedere di memorizzare quindicimila versi in una stagione, poiché le compagnie, a cui appartenevano i testi teatrali, potevano avere fino a trenta spettacoli nel loro repertorio attivo (più o meno come imparare a memoria ogni parola di questo libro, scrive Bryson, pag. 101).
Che l'ortografia era "rigogliosamente variabile", la gente poteva mostrare una straordinaria noncuranza anche per il proprio nome, e di questa variabilità dell'ortografia del tempo è testimone il fatto che ad esempio si conoscono più di ottanta grafie del nome Shakespeare, fra le altre cose; e anche le pronunce erano molto diverse da quelle di oggi, con rime talvolta parecchio forzate (cfr. pag. 138-139). Famosa anche la prolificità di Shakespeare nei confronti delle parole, di intere nuove frasi e modi di dire.

Ci sono dei suoni che stuzzicano quella parte di noi destinata al piacere, non è vero? Di quelli che chiudi gli occhi per isolarli nella mente, come ad esempio le suole sulla ghiaia, la pioggia sul tetto, lo scorrere dell'acqua dei fiumi.
La storia di Londra del XVI secolo, terrificante e attraente insieme,

"Pochi di coloro che vivevano alla fine del Cinquecento in un'Inghilterra tormentata dalla povertà, dalla disoccupazione e dalla crisi economica avrebbero detto che il loro era un mondo migliore o che l'inventiva umana aveva restaurato una società buona e giusta. La peste aveva privato molte case del capofamiglia e del reddito, e le guerre e le altre imprese all'estero avevano creato una schiera indigente di mutilati e sbandati tutti privi di sostegno. Non era un'età in cui si mostrasse molto riguardo per i deboli. (Bryson, pag. 145)"

"I libri stampati esistevano da secoli come oggetti di lusso, ma quella fu l'età in cui divennero per la prima volta accessibili a tutti coloro che avessero qualche soldo da spendere. La gente comune poteva finalmente accumulare istruzione e raffinatezza a proprio piacimento. Nella Londra elisabettiana furono pubblicati più di settemila titoli, un'abbondanza di materiale nuovo che aspettava soltanto di essere assorbito, rielaborato e utilizzato da una generazione di drammaturghi che sperimentavano nuovi modi di intrattenere il pubblico. Questo era il mondo in cui arrivò Shakespeare, in pieno fermento. Dovette pensare di aver trovato il paradiso. (Bryson, pag. 69)"

"All'interno, la cattedrale [St Paul] era uno spazio infinitamente più rumoroso e pubblico di quello che troviamo oggi. Falegnami, rilegatori, scrivani, avvocati, facchini e manovali operavano all'interno delle sue echeggianti vastità, anche durante le funzioni religiose. Gli ubriaconi e i vagabondi ne facevano un luogo di riposo; alcuni espletavano i loro bisogni negli angoli. I bambini giocavano a palla nelle navate finché non venivano scacciati. Altri accendevano piccoli fuochi per riscaldarsi. (Bryson, pag. 69)"

mi rievoca lo schioccare degli zoccoli sulla pietra e il calpestio delle ruote sulle superfici irregolari delle strade, in un complessivo sferragliare di sussulti rotolanti: un'altro rumore per cui vado pazza, quello di zoccoli e carrozze.
E l'abilità di Bryson nel descrivere addirittura gli odori della città:

"[I teatri] Erano tutti costretti ad aver sede nelle liberties, aree prevalentemente al di fuori delle mura dove non vigevano le leggi e le regole della City. Era un'emarginazione che condividevano con i bordelli, le prigioni, i negozi di polvere da sparo, i cimiteri sconsacrati, i manicomi (...) e con attività rumorose quali la produzione di sapone, la tintura e la conciatura - e queste ultime potevano essere veramente chiassose. I produttori di colla e di sapone lavoravano copiose quantità di ossa e grassi animali, ammorbando l'aria con un tanfo nauseante che si attaccava addosso, mentre i conciatori immergevano i loro prodotti in vasche di feci di cane per renderli più malleabili. Nessuno poteva arrivare a teatro senza prima essere incappato in un bel po' di odori. (Bryson, pag. 90-91)"

E a proposito di teatri, il Globe, l'unico del periodo di cui esista una documentazione architettonica, apparteneva ai membri della compagnia di Shakespeare, e la sua caratteristica unica era quella di essere stato progettato esclusivamente per le produzioni teatrali, e non per fare incassi con i combattimenti di galli, orsi o con altre forme di intrattenimento diffuse:

"Nessun teatro - forse nessuna impresa umana - ha mai conosciuto gloria maggiore in un solo decennio di quanta ne abbia goduta il Globe nella sua prima incarnazione. (...) Oggi siamo elettrizzati da queste opere [di Shakespeare]. Ma cosa dovevano suscitare quando erano nuove e tutti i loro riferimenti attuali e pertinenti e tutte le parole mai udite prima? Basti immaginare di assistere al Macbeth senza conoscerne il finale, di far parte di un pubblico silenzioso che ascolta per la prima volta il monologo di Amleto, di vedere Shakespeare che recita le sue stesse battute. Non devono essere esistiti, nella storia, molti luoghi più privilegiati di quello. (Bryson, pag. 156)"

E, nell'intimità di un teatro più piccolo, invece, ci si poteva sedere sul palco! E godersi lo spettacolo a lume di candela! Con l'inevitabile rischio della distrazione (capitò qualcuno che attraversò la scena per raggiungere gli amici dall'altra parte del teatro...)

"Il Blackfriars divenne il modello da cui sarebbero derivati tutti i successivi teatri coperti, e per questo, alla resa dei conti, per i posteri fu più importante del Globe. Conteneva soltanto seicento spettatori, ma era più redditizio del Globe perché il biglietto era caro (...) Un teatro più piccolo consentiva anche una maggiore intimità sul piano recitativo e perfino musicale, con strumenti a corda e fiati in legno al posto degli squilli di tromba. Le finestre facevano entrare un po' di luce, ma a fornire il grosso dell'illuminazione erano le candele. Pagando un supplemento, gli spettatori potevano sedersi sul palco - cosa che al Globe non era permessa - e sfoggiare al massimo la loro eleganza. (...) A parte quelli sul palco, i posti migliori erano in platea (o almeno così si presume), poiché i candelabri che pendevano dal soffitto oscuravano almeno in parte la vista a quanti erano seduti più in alto. (Bryson, pag. 170-171)"

E infine altre storie curiose su come le opere di Shakespeare siano arrivate sino a noi (nonostante i manoscritti scomparsi), che i Sonetti probabilmente non erano stati scritti per essere pubblicati (e tutte le polemiche omofobiche relative alla loro prima metà), e varie teorie sul fatto che potesse addirittura non essere stato Shakespeare a scrivere le opere (ci sono vari candidati alla paternità del suo teatro), o comunque che abbia preso in prestito parecchio da parecchi. Eccetera.

E allora chiudo così:

"Bisogna davvero rendere omaggio all'ingegnosità degli entusiasti antistratfordiani, i quali, se hanno ragione, sono riusciti a smascherare la più grande frode letteraria della storia, senza il beneficio della benché minima prova, a distanza di quattrocento anni dal fatto. Quando riflettiamo sulle opere di William Shakespeare, è ovviamente sbalorditivo che un uomo solo possa aver creato un corpus così sontuoso, ricco, vario, eccitante ed eternamente incantevole, ma è proprio questa l'impronta del genio. Soltanto un uomo aveva le possibilità e le doti per darci opere così incomparabili, e William Shakespeare di Stratford era incontestabilmente quell'uomo - chiunque egli fosse. (Bryson, pag. 239)"

A proposito di mondo e di cittadini del mondo, mi sono imbattuta in un particolare test del DNA che... ho voluto fare. Ma di questo vi dirò la prossima volta.

Commenti facebook

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.